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Recensioni (1)
29 set 2018
Bello Massiccio
Un piccolo passo indietro quindi per i Torture Killer, i quali comunque senza incantare riescono a colpire ancora una volta nel segno. Sewers non entrerà negli annali, ma senz’altro appagherà gli amanti del genere sempre più stanchi delle delusioni targate Six Feet Under; inoltre è la definitiva conferma che gli allievi hanno superato i maestri.
Archiviata la collaborazione con il superlativo maestro, i ragazzoni scandinavi tornano a pestare duro sull'acceleratore, incuranti delle pressioni, dei rumors e di tutti gli interessi che inevitabilmente hanno suscitato. La risposta si concretizza nel nome di Sewers, terzo fiammante tassello di un gruppo che senza inventare nulla sembra avere le carte in regola per tentare la scalata di un filone tanto apprezzato quanto alla deriva. Il microfono passa nelle mani di Juri Sallinen, il quale nemmeno a dirlo si dimostra perfettamente a suo agio e sempre all'altezza della situazione, senza mai far rimpiangere l'illustre predecessore. Come da programma, la formula resta pressappoco invariata, quindi figlia di quel death-groove che appunto molto deve ai trascorsi gloriosi dei Six Feet Under e Obituary. I toni permangono esagitati, pregni di quella classica atmosfera malefica e polverosa, spiegati da due chitarre assassine, ferrate nel macinare una valanga di riff galoppini, e da una ritmica mai troppo veloce ma piuttosto pronta a dettare i serrati tempi. Il buon dinamismo è bilanciato da un’espressione priva di particolari fronzoli, incentrata sul devastante impatto a sua volta enfatizzato dal flaveur di motivi quasi sempre catchy, che però mai raggiunge le vette incontaminate dell’originalità. Inutile negare l'evidenza: gli otto brani proposti sono colmi di soluzioni abbondantemente collaudate che potrebbero ridondare nelle orecchie di molti, soprattutto dei più smaliziati, come qualcosa di già sentito. Fortunatamente l'attitudine straordinaria, e qualche felice scorribanda melodica, tiene a debita distanza le minacciose ombre, seppur consegnando la definitiva impressione che in questa occasione il combo si sia accontentato, limitandosi a svolgere egregiamente il compitino. Peccato, perché con un briciolo di coraggio in più avrebbero senz’altro potuto dare alle stampe un platter ancor più pregiato lontano anni luci dalla mediocrità del panorama attiguo. A riprova di ciò basti ascoltare I Bathe In Their Blood, la più singolare dell’intero lotto, per comprendere come i nostri siano tutt’altro che semplici esegeti.